L’epidemia cinese
Dallo scorso novembre 2019 il nome della città di Wuhan e della provincia dell’Hubei sono diventati sinonimi di contagio, epidemia, pericolo. Come in un film apocalittico, la pandemia è cresciuta prima nei quartieri e nella città cinese per poi espandersi a tutta la provincia. In Italia si preparavano gli acquisti per il Natale mentre la Cina guardava prima con terrore e poi con particolare attenzione a quello che sarebbe stato un focolaio globale di contagio da Sars-CoV-2. Il resto lo conosciamo bene.Circa quattro mesi più tardi la Cina si presenta al mondo come il gigante che ha sconfitto il mostro. Sono passati circa 120 giorni, e in questo periodo il colosso commerciale del mondo sta cercando di ricostruire la più grande azienda nazionale: il suo stesso nome. In queste righe non andiamo ad analizzare lo scenario geopolitico attuale – non è questo il luogo – ma ci addentriamo in ciò che le potenze globali stanno mettendo in atto per mostrarsi agli altri come forti, auto-sufficienti, resilienti. O immuni. Chiamatelo soft-power, noi lo chiameremo “marketing”.
Wuhan è la città capoluogo dell’Hubei, nella Cina centrale. Un polo commerciale da oltre 12 milioni di abitanti, attraversato dal Fiume Azzurro e dal Fiume Han. Ma il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump lo associa direttamente al virus, quando parla in conferenza stampa da Washington: «It’s not racist at all», sottolinea il magnate ai giornalisti che gli fanno notare come sia inopportuno attaccare il rivale alle corde. «It comes from China, that’s why», si giustificherà Trump.
À la guerre comme à la guerre. La pandemia in atto mette sul tavolo scenari da incubo. Si parla di una recessione globale da far impallidire quella del 2008, provocata dal fallimento della banca Lehman Brothers. E la Cina prova a recuperare terreno. Dopo mesi con l’epiteto di “Paese untore”, Pechino muove i suoi passi.
L’Italia al centro degli interessi
A metà marzo arrivano i primi aiuti in Italia, provenienza Cina. Trenta tonnellate di materiale tra ventilatori, respiratori, elettrocardiografi, mascherine e altri dispositivi sanitari. A livello formale, per rispondere alle 18 tonnellate di materiale inviato dall’Italia a Wuhan lo scorso febbraio. Gli interessi cinesi in Italia sono molto più ampi, ma è fondamentale per Pechino presentarsi come un colosso efficiente e saggio, soprattutto per un nuovo interlocutore, come l’Italia, così direttamente investito dal mastodontico piano di sviluppo “Belt and Road Initiative”.
L’impatto emotivo dell’arrivo del materiale e dei medici cinesi in Italia ha fatto breccia. E se l’invio di 30 medici dall’Albania ci ha (giustamente) commosso, anche la Russia sta concentrando i propri sforzi per presentarsi alla popolazione italiana come un Paese forte, efficiente e “amico”. I video che circolano sul social media dallo scorso 26 marzo inquadrano la colonna di mezzi militari russi sulle nostre autostrade, mentre portano in Italia 120 medici e circa 600 ventilatori polmonari. Nome dell’operazione? “Dalla Russia con amore”.
Questi non sono certamente gli unici Paesi ad aiutare concretamente il nostro Paese. Se Cuba ha inviato un contingente di medici e nuove cure in Lombardia, così anche Francia e Germania – nonostante la vox populi – hanno continuato a esportare materiale medico verso la Lombardia e le zone più colpite dal contagio. Ma è una notizia che ha avuto un impatto decisamente minore. Il fatto che l’Italia rischi di avvicinarsi allo schieramento nemico (Cina e Russia), mette Washington in allerta. E infatti anche Trump si muove verso Roma. È del 31 marzo la notizia dello stanziamento di 100 milioni di dollari nei confronti dell’economia tricolore.
Il tracollo del turismo e la strategia per il futuro
Perché è fondamentale riuscire a far riemergere il nome del proprio Paese prima che finisca l’emergenza sanitaria? Per vari motivi. Politica internazionale, prestigio, mercati finanziari in primis. Ma anche per cultura e turismo. Prima della crisi attuale, il trend di crescita del reddito pro capite cinese spingeva i cinesi a spendere di più per i viaggi. Entro il 2022 – si prevedeva fino a pochi mesi fa – la popolazione cinese spenderà fino a 128 miliardi di euro in turismo estero. E il turismo interno, in crescita fin dal 2015 al quarto posto mondiale, valeva fino a ieri circa 9 trilioni di dollari, l’11% del PIL. Generando tra l’altro un indotto di 28 milioni di occupati.
Negli Stati Uniti sono stati 37 milioni, i turisti sbarcati all’ombra della bandiera a stelle e strisce tra il gennaio e il giugno 2019. Una quota analoga a quella dell’anno precedente, quindi già in un trend decrescente rispetto a una crescita globale di circa il 3-4% annuo. E l’America si presenta oggi ai nostri occhi come impreparata. Certamente avrà le capacità di reagire e saper mettere in campo risorse inimmaginabili, a livello tecnico e finanziario. Ma sconta oggi una colpevole sufficienza del primo periodo, che rischia di causare alti numeri in termini di contagiati e morti.
E la Russia? L’obiettivo generale era quello di raggiungere una quota di 25 miliardi di dollari generati dal turismo entro il 2035. Anche perché il margine di crescita nel Paese, sotto questo aspetto, è ampio: basti pensare che nel 2019 sono stati 25 milioni i turisti che hanno visitato l’immenso territorio russo. E se ad oggi Putin ha sempre mostrato il proprio Stato come distante e quasi “immune” al contagio, oggi Mosca è anch’essa in lockdown, e la ripresa è distante.
Questo periodo, che lascerà gravi cicatrici sulla popolazione mondiale sotto ogni aspetto, segna anche un nuovo modo di guardare la turismo, al commercio, alla cultura. Il marketing territoriale, il mondo degli eventi, delle fiere, dei concerti, dello sport: tutto è in attesa, colpito al cuore e in previsione di vedersi rivoluzionare a tutto tondo. Ma molto starà alla capacità di reazione dei singoli e alle strategie nazionali adottate oggi.
Questa volta non basterà truccarsi, occorrerà guardarsi allo specchio e capire su cosa puntare.